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QUATTRO PASSI CON MIGUEL LITTIN

Lunedì 12 Novembre. Sono le 21 passate quando Miguel Littin entra nella sala Scorsese del Cinema Lumiere di Bologna. Camicia rossa, capelli bianchi, sorridente. Si toglie il berretto, fa un inchino, si prende uno scroscio di applausi e si siede. Inizia un breve dibattito. Hanno appena proiettato “El Chacal de Nahueltoro” ( Lo sciacallo di Nahueltoro) il suo primo lungometraggio, girato nel 1969 e che gli diede immediata notorietà. Un film tratto da una vicenda realmente accaduta, su un pluriomicidio commesso nel sud del Cile da un contadino povero ed emarginato, che viene preso, incarcerato, riabilitato e poi giustiziato a mezzo fucilazione. Un film che ha già l’impronta di fabbrica che caratterizzerà tutta l’opera di quello che è certamente uno dei più grandi registi latinoamericani. Metà documentario, metà onirico. Un film di analisi, di denuncia e di protesta. Fatto per smuovere le coscienze e girato con molti attori non protagonisti. In poche parole, cinema militante. Alla sua uscita il film fece clamore e venne aspramente criticato. Come dirà lo stesso Littin poco dopo: “invece di rappresentare l’aspetto turistico e paesaggistico del Cile, fatto di fiumi, monti e fiori profumati, avevo osato mostrare una realtà del Paese che doveva essere nascosta”.
Sono arrivato in sala che il film era già iniziato. Poco male, tanto lo avevo già visto e poi mi interessava soprattutto ascoltare Littin. Il grande cineasta cileno era infatti a Bologna di passaggio. E’ appena stato omaggiato del “Premio Salvador Allende” al XXII Festival del Cinema Latinoamericano di Trieste, di cui quest’anno è stato presidente della giuria. La Cineteca di Bologna, ha colto l’occasione al volo e in collaborazione con Rodrigo Diaz, il direttore del Festival, lo ha portato a Bologna per un giorno, rendendogli omaggio con la proiezione di alcuni suoi film. Il premio vinto è attribuito “per onorare i valori della cultura, dell’arte e della politica, e come riconoscimento agli artisti che, attraverso le loro opere, si sono impegnati nel riscattare la memoria e la storia dei popoli latinoamericani” e Miguel Littin certamente lo merita come pochi altri.
Littin inizia a parlare e ricorda proprio quello stesso Salvador Allende di cui fu sostenitore ed amico, anche critico. Ricorda quando nel 1971 il presidente socialista lo chiamò a dirigere la Chile Film, l’ente cinematografico di stato e quando l’anno prima, da poco eletto, gli chiese di filmare l’intervista che Allende aveva concesso allo scrittore e filosofo marxista Regis Debray. Cosa che avvenne, nonostante i timori di Littin, e che alla fine montò quella famosa pellicola intitolata “Compañero Presidente”, aggiungendo i suoi commenti con voce fuori campo. Littin ricorda Allende e la sua eredità morale e politica. Una lezione di coerenza ed integrità. Un uomo eletto democraticamente da quella parte di popolo che aveva imparato col tempo ad ascoltare e conoscere, che chiedeva dignità, diritti ed uguaglianza e a cui rimase fedele sino alla difesa estrema del palazzo presidenziale della Moneda, l’11 settembre del 1973, quando morì sotto le bombe di Pinochet.
Littin parla dei suoi esordi, degli anni sessanta, dello spirito che lo animava allora e che sembra non averlo lasciato. Gli anni dell’Università, in cui niente sembrava impossibile, in cui con il teatro prima e con la televisione e il cinema poi, esprime la voglia di rottura con la società dell’epoca. Conservatrice e addirittura “feudale” come quelle cilena di quegli anni. Povera e arretrata, stretta tra i grossi latifondi terrieri del sud e le grandi miniere del nord, dove venivano parimenti sfruttati sia i contadini che i minatori. Littin, in quegli anni, raccoglie ed incarna il vento liberatorio del sessantotto e da vita, da protagonista, all’epopea della nova cultura cilena (il nuevo cine, la nueva cancion). Parla orgogliosamente dell’inizio degli anni settanta e della sua appartenenza a quell’ampio movimento di centro sinistra “ante litteram”, che andava dai cattolici progressisti ai socialisti e comunisti, passato alla storia con il nome di Unidad Popular. Ricorda come Enrico Berlinguer prendendo spunto proprio dalla tragica fine di quella esperienza, propone in Italia il “Compromesso Storico”, che Allende aveva intuito, ma che non ebbe il tempo di realizzare.
Poi ritorna a parlare di cinema. Ricorda quando da piccolo, a nove anni, vede “Roma città aperta” di Rossellini, di come ne rimase impressionato e come il cinema neorealista italiano lo abbia da allora per sempre felicemente contaminato. Si scusa con il pubblico in sala della tipologia dei suoi film, che non sono spettacolari come quelli nordamericani. A lui non interessa fare cassetta, ma descrivere la realtà, trasmettere idee ed emozioni. Del resto, sottolinea, in america latina non abbiamo grandi mezzi di produzione, ma per fortuna non mancano autori.
Parla spagnolo Littin, lentamente, così che il pubblico in sala possa comprenderlo anche senza bisogno della traduzione. Parla con il suo fare deciso, ma gentile e modesto, come fosse l’ultimo arrivato. Cita Pablo Neruda e i registi cileni militanti della sua generazione, come Helvio Soto e Aldo Francia. Gli chiedono dei suoi rapporti con Raul Ruiz. Poi gli domandano cosa provò quando tornò in Cile a metà degli anni ottanta come clandestino sotto la dittatura di Pinochet, per girare, quello che divenne poi il film documentario “Acta general de Chile” (1985). Uno dei più belli che abbia mai visto sulla dittatura. Littin racconta che gli apparve una realtà molto diversa da quella che si era immaginato dall’esilio. Trovò certamente la paura e il grigiore della dittatura, ma anche tantissimi cittadini che resistevano, soprattutto nelle zone popolari. Una resistenza che non era solo quella della guerriglia clandestina, ma soprattutto quella della resistenza passiva. Dove nelle poblacion, soprattutto ad opera delle donne, si organizzavano mense comuni e dove si esercitava ogni giorno il difficile esercizio della solidarietà. Dove ci si aiutava e si divideva quel poco che si aveva. Dove i gesti semplici, come sbucciare una patata o servire una minestra erano i veri gesti eroici. E’ questo quello che cerca di raccontare e trasmettere Littin da anni con i suoi film. La bellezza e la dignità dei gesti semplici e degli umili. E’ questa la sua estetica.
La conferenza finisce. Esco dalla sala e rimango a parlare un po’ fuori con il mio amico Leonardo Barcelò. Cileno ex membro della direzione regionale a Santiago del Cile di Unidad Popular negli anni 70-73, esiliato dopo il golpe in Italia e ora docente di Lingua spagnola presso l’Università di Bologna. Poco dopo esce anche Miguel Littin. Lo salutiamo e ci fermiamo a parlare. Non lo avevo mai conosciuto di persona. Facciamo un po’ di strada assieme, fuori è una bella serata ma fa freddo. Lo accompagniamo per un pezzo di strada, sino in centro. Leonardo rievoca con Littin il comune passato cileno. Io gli chiedo invece di raccontarmi della genesi de “Le avventure di Miguel Littín, clandestino in Cile” che Garcia Marquez scrisse nel 1986. Mi racconta che avvenne per caso. Lui e Marquez erano già amici da tempo, e una sera conversando comodamente in casa, fu proprio Littin a raccontargli quell’incredibile viaggio. Marquez ne rimase talmente colpito che volle assolutamente scrivere quella vicenda. Littin mi racconta i particolari e gli aneddoti della stesura e della revisione di quel testo. Sorride e ricorda con orgoglio e tenerezza.
E’ quasi mezzanotte e fa sempre più freddo.
E’ tardi ed è tempo dei saluti.
Grazie per la splendida serata.
Adiós.
Certo ho fatto solo due chiacchiere in libertà e quattro passi in compagnia, nulla di più.
Certo, ma con Miguel Littin.

Miguel Littin. Senza dubbio uno dei più importanti cineasti latinoamericani degli ultimi quarant’anni. Il suo cinema impegnato e militante, racconta con la forza viva ed incisiva del documentario e della finzione narrativa le condizioni di vita dei più umili e degli oppressi. Nato in Cile a Palmilla nel 1942 studia teatro all’Universidad de Chile di Santiago. Si laurea nel 1962 e l’anno seguente viene assunto come regista in una televisione cilena, Canal 9. Gira cortometraggi, tiene corsi all’Università ed organizza festival del cinema. Appoggia apertamente la candidatura di Salvador Allende e ne diventa amico e collaboratore. Nel 1971, per un anno è direttore della Chile Film, da cui si dimette per essere più libero di esprimere il suo cinema. Negli anni di Unidad Popular, gira vari film e documentari e nel 1973 a seguito del Golpe, da esiliato, si stabilisce prima a Cuba e poi in Messico. Negli anni novanta, con il ritorno della democrazia, ritorna definitivamente in Cile. Unico latino americano nominato 2 volte all’Oscar; è stato premiato ai Festival di Cannes, Berlino, Venezia, e praticamente in tutti i Festival dell’America Latina.

Paolo Mattana © 2007