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PASOLINI e la sua rabbia lucida e poetica

Se c’è chi ancora nutrisse qualche residuo dubbio sul fatto che Pierpaolo Pasolini sia stato uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento, in questi giorni può togliersi definitivamente dalla testa anche l’ultima incertezza. E’ tornato infatti nelle sale cinematografiche, dopo oltre quarant’anni di oblio, il film-saggio “La rabbia”, che Pasolini scrisse e diresse nel 1963. Poco più di un ora di immagini e frammenti di repertorio di vecchi cinegiornali o di documentari inediti montati e commentati dalla lucida e visionaria poetica d’impegno del grande intellettuale emiliano.
Il film è stato ripescato da Bernardo Bertolucci, che lo ha presentato al festival di Venezia, e che lo integrato ricostruendone la parte iniziale ( all’epoca tagliata) e aggiungendo una breve coda in cui Pasolini, come al solito, è costretto a difendersi dagli attacchi di una campagna mediatica che lo bersagliava, da destra, come da sinistra. Chi è stato sempre indeciso se preferire il Pasolini regista o quello poeta o quello scrittore, potrà ora andare al cinema e godersi finalmente tutte e tre queste anime riunite assieme, nell’ennesimo piccolo capolavoro assoluto, di puro stampo pasoliniano.
La storia del film è nota, nel 1963 Pasolini, accetta la proposta del produttore Gastone Ferranti, di fare un film saggio partendo da vecchi cinegiornali e documentari. Il film risulta agli occhi del produttore troppo politico e troppo proiettato a sinistra e quindi decide di tagliarne un pezzo e di affidarne la seconda parte a Giovannino Guareschi (che incarna bene con la sua comicità popolare anticomunista l’intellettualismo borghese dell’epoca) per controbilanciare l’opera di Pasolini. Una sorta di affresco contemporaneo visto da destra e da sinistra. Pasolini, nonostante all’inizio rifiutò scandalizzato la coabitazione con l’autore di Peppone e Don Camillo, alla fine accettò la nuova impostazione. Il film uscì e fu un fiasco, presto ritirato dalle sale.
Ma torniamo a Pasolini. E’ lo stesso scrittore a dire qual è il tema del film. Un saggio che cerca di rispondere, attraverso immagini e parole a questa domanda: “Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?” Sopra la musica struggente dell’Adagio di Albinoni, scorrono immagini di morte, di guerra, di lavoratori, di folle, di funerali, di papi e contadini. Intanto, le voci di Giorgio Bassani e Renato Guttuso, leggono il testo poetico scritto dal loro amico Pasolini. Un testo come sempre lucido, spietato, poetico, terribilmente anticipatore. Come quando vede la deriva delle coscienze accompagnarsi al sorgere del benessere e all’industrializzazione. Un processo che annulla le anime, massificandole dietro nuovi falsi idoli, come la televisione (“il nuovo mezzo è stato inventato per la diffusione della menzogna” dice Pasolini), e creando nuove povertà e nuovi sottoploretariati. O quando (siamo agli inizi degli anni sessanta) individua nelle future migrazioni dei popoli africani sfruttati e colonizzati, l’emergenza del futuro. “Eravate milioni di uomini come noi e per conoscervi abbiamo dovuto sapervi in guerra” dice a un certo punto Pasolini, parlando della guerra in Corea. O come quando sulle immagini dell’elezione del nuovo papa Giovanni XXIII, sarcasticamente si domanda: “Ci saranno fumate bianche per papi figli di contadini del Ghana o dell’Uganda? Per papi figli di braccianti indiani morti di peste nel Gange, per papi figli di pescatori gialli morti di freddo nella Terra del Fuoco?”
Un Pasolini come sempre assolutamente indipendente. Come quando, lui comunista, si scaglia contro la nomenklatura e il comunismo conformista, mostrando la follia dell’invasione sovietica a Budapest del 1956 e fa della guerra fredda e dell’atomica, il paradigma delle assurdità del nostro tempo. Quando alla fine del film un intervistatore gli chiede perché in Italia non si arrabbia più nessuno, Pasolini risponde ironicamente che di fronte ad una “borghesia così piccola” c’è spazio solo per una “piccola rabbia”.
Del resto, Pasolini già in quegli anni così scriveva, solitario, rabbioso e preveggente: “L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo”. (Pier Paolo Pasolini Vie Nuove n. 36, 6 settembre 1962)
Ma Pasolini non ci sta, non si arrende e cerca sempre di farci ragionare, emozionare e la sua rabbia si trasforma allora in un sublime messaggio di pace: “Perché compagni e nemici, uomini politici e poeti, la rivoluzione vuole una sola guerra, quella dentro gli spiriti che abbandonano al passato le vecchie, sanguinanti strade della Terra”.
E così a riscattare parzialmente il triste affresco contemporaneo, Pasolini propone anche immagini a lui care come quelle della rivoluzione cubana o di Ghandi, che fanno da contro altare a quelle devastanti della campagna francese d’Algeria o di bambini affamati da inutili guerre. E ripropone splendide immagini di Marylin, mentre dice : “Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro era rimasta solo la bellezza, e tu te la sei portata dietro come un sorriso obbediente”. E si esce dal cinema con un grande vuoto. Perché avremmo ancora bisogno delle sue parole, ma Pasolini non c’è più.

Paolo Mattana © 2008